SHOULD
C-REACTIVE PROTEIN BE ADDED TO METABOLIC SYNDROME AND TO ASSESSMENT OF
GLOBAL CARDIOVASCULAR RISK?
Ridker P, Wilson
P, Grundy S.
Circulation 2004; 109:2818-2825
RIASSUNTO:
Dei nuovi
fattori di rischio cardiovascolare attualmente oggetto di ricerca, la
proteina C-reattiva ad alta sensibilità (hsCRP) è sicuramente
la più promettente. Fino ad ora, più di 20 studi epidemiologici
prospettici hanno dimostrato che la CRP predice in modo indipendente il
rischio vascolare; 6 studi di coorte hanno confermato che determinare
i livelli di CRP permette di aggiungere informazioni prognostiche a quelle
già disponibili che derivano dalla stima del rischio secondo l'algoritmo
di Framingham. Infine 8 studi di coorte hanno dimostrato il valore prognostico
aggiuntivo a tutti i livelli della sindrome metabolica o nella diagnosi
di diabete mellito di tipo 2. Contrariamente agli altri numerosi biomarkers
indicatori anche degli aspetti biologici di infiammazione, ipofibrinolisi
e resistenza all'insulina, il dosaggio delle CRP risulta essere poco costoso,
standardizzato, ampiamente disponibile ed ha un intervallo di variazione
(di dieci in dieci) del tutto simile a quello del colesterolo. Data la
consistenza del valore prognostico di hsCRP e la praticità del
suo impiego, i ricercatori ritengono sia giunto ormai il tempo di aggiungere
la valutazione della CRP tra i criteri di diagnosi della sindrome metabolica
e di creare un nuovo algoritmo del rischio coronario che tenga conto anche
di CRP e che risulti valido sia per le donne che per gli uomini.
COMMENTO:
L'identificazione di individui ad alto rischio di sviluppare una patologia
cardiovascolare ma al momento privi di qualsiasi sintomo, rappresenta
una questione critica in prevenzione primaria. Da più di 30 anni,
gli algoritmi per la stima del rischio cardiovascolare prendono in considerazione
pressione sanguigna, fumo, iperlipidemia e la presenza o assenza di diabete,
ovvero i tradizionali fattori di rischio cardiovascolare che derivano
principalmente dalla valutazione dei dati dello studio di Framingham,
il primo, nel 1960, ad avere fornito le basi del concetto di "fattore
di rischio cardiovascolare". Con la conferma dei maggiori studi di
coorte svolti in tutto il mondo, tali fattori di rischio e le loro interazioni
con età e sesso, sono stati codificati, nel 1980, nell'algoritmo
di Framingham (Framingham Risk Score). Questo sistema di valutazione ha
avuto un ampio successo e costituisce la base di molti programmi di stima
e di prevenzione del rischio cardiovascolare.
Nella pratica clinica, i soggetti con un rischio, a dieci anni, <5%,
vengono classificati a basso rischio di incorrere in una coronaropatia
(CHD); nel caso di un valore compreso tra 6% e 20% si parla di rischio
intermedio ed infine per valori >20% si parla di soggetti ad alto rischio
di CHD. Nonostante il successo di questa metodica, esistono però
delle limitazioni nel suo utilizzo: primo, è noto che un 1/5 di
tutti gli eventi cardiovascolari si verifica, in realtà, in soggetti
in cui i fattori di rischio classici non sono stati individuati. Inoltre,
la specificità di questi fattori non è assoluta.
Numerosi studi confermano che molti eventi vascolari si verificano in
pazienti che non mostrano livelli elevati di colesterolo e che i soggetti
a rischio intermedio costituiscono un gruppo piuttosto ampio, eterogeneo
e che necessita di metodiche migliori per stratificarne il rischio. Infine
la correlazione tra rischio secondo Framingham e rischio assoluto di CHD
varia a seconda della popolazione e delle etnieanche se esiste la possibilità
di "adattere" l'algoritmo alle specifiche popolazioni. Per tutte
queste ragioni, diviene interessante la prospettiva di nuovi fattori di
rischio in grado di migliorare la predizione del rischio globale. Per
essere utile nella pratica clinica, il nuovo biomarker di interesse dovrebbe
fornire informazioni sul rischio e le metodiche per la sua stima dovrebbero
essere poco costose e a disposizione dei medici di medicina generale e
quindi di facile interpretazione.
Tra questi fattori di rischio, quello più promettente è
sicuramente rappresentato dalla proteina C-reattiva. Nel gennaio 2003
i Centers for Disease Control and Prevention (CDC) e l'American Heart
Association (AHA) hanno pubblicato le prime linee-guida sull'impiego delle
CRP per lo screening dei fattori di rischio cardiovascolari tradizionali.
In base ai dati di numerose ricerche, i livelli di CRP<1, compresi
tra 1 e 3 e >3mg/L identificano, rispettivamente, un rischio cardiovascolare
basso, moderato ed alto. CDC e AHA hanno suggerito anche che l'uso migliore
delle CRP è nel caso di pazienti classificati a rischio intermedio
secondo l'Algoritmo di Framingham.
Un anno dopo la pubblicazione delle linee guida, sono emersi numerosi
dati che non solo confermano la capacità di CRP di aggiungere informazioni
prognostiche, ma in più, correlano la CRP alla sindrome metabolica
e allo sviluppo di diabete mellito di tipo 2.
Lo studio WHS (Women's Health Study) ha condotto una valutazione prospettica
dei livelli di CRP in 27.939 donne sane e monitorate, per un periodo medio
di 8,3 anni, per la comparsa di eventi cardiovascolari. I valori al basale
di CRP risultavano essere un forte predittore di episodi vascolari futuri;
i rischi relativi dal quintile più basso a quello più alto
di CRP erano, rispettivamente: 1.0, 1.8, 2.3, 3.2 e 4.5 (p<0,001).
Dopo correzione per età, fumo, diabete, pressione sanguigna e terapia
ormonale sostitutiva, il rischio nel quintile più alto di CRP passava
a 2.3 (95% IC 1,6-3,4). Importante è sottolineare che i livelli
di CRP restavano significativi anche dopo correzione per la stima del
rischio secondo l'algoritmo di Framingham (1.0, 1.3, 1.4, 1.7 e 1.9; p<0,001).
Se si dividono i livelli di CRP in cinque classi (<0,5; 0,5-1,0; 1,0-3,0;
3,0-10,0 e >10,0 mg/L), si può migliorare ulteriormente la discriminazione
del rischio effettuata secondo Framingham. Questi dati concordano con
l'ipotesi secondo cui valori molto bassi di CRP possono proteggere dagli
eventi vascolari acuti. D'altra parte, l'infiammazione cronica porta ad
un rischio massimo, osservazione coerente con l'evidenza sui meccanismi
diretti con cui la proteina C-reattiva è in grado di influenzare
sia lo sviluppo di aterosclerosi che di una trombosi acuta.
Parte dell'interesse clinico nell'aggiungere la determinazione delle CRP
agli attuali algoritmi per la stima del rischio cardiovascolare deriva
dal fatto che anche l'infiammazione gioca un ruolo importante nello sviluppo
del diabete e della sindrome metabolica. In recenti studi i livelli di
CRP sono risultati associati a valori elevati di trigliceridi, basso colesterolo
HDL, obesità addominale, elevati livelli pressori e di glucosio
a digiuno; tutti elementi, secondo la ATP III, che concorrono a definire
la sindrome metabolica. Inoltre, i livelli di CRP sono correlati alla
resistenza all'insulina, alla disfunzione endoteliale e alla fibrinolisi,
componenti maggiori della sindrome metabolica non facilmente valutabili
da parte del medico di medicina generale.
Sempre nell'ambito dello studio WHS, i soggetti con CRP<3 mg/L e senza
sindrome metabolica presentavano migliori condizioni vascolari, rispetto
a quelli con CRP>3 mg/L e con sindrome metabolica. Inoltre, i soggetti
con sindrome metabolica e concentrazioni più alte di CRP erano
caratterizzati da un rischio relativo di venti cardiovascolari futuri
doppio rispetto a quelli sempre con sindrome metabolica ma con valori
più bassi di CRP (95% IC 1,1-4,2; p=0,001). Infine, i pazienti
i cui livelli di CRP rientravano nel quartile più alto presentavano
una predisposizione maggiore (circa quattro volte superiore) verso lo
sviluppo di diabete rispetto a quelli che rientravano nel quartine più
basso di hsCRP (rischio relativo 4,2; 95% IC 1,2-12,0).
Alla luce di tutte queste considerazioni si può ipotizzare quindi
la possibilità di elaborare un nuovo strumento di stima del rischio
cardiovascolare che consideri, tra le varie componenti, anche il livello
plasmatici della proteina C-reattiva ad alta sensibilità, visto
i dati confortanti e a favore emersi da numerose recenti pubblicazioni.
Alberico L. Catapano e Alessandra Bertelli, Dipartimento di Scienze Farmacologiche,
Università degli Studi di Milano
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