Controversie sulla "Sindrome Metabolica"

Su uno degli ultimi numeri della rivista "Diabetes Care" è ripresa la polemica fra coloro che promuovono l'entità nosologica della "Sindrome Metabolica" e chi, invece, preferirebbe mantenere separata l'attenzione sui vari determinanti clinici, in attesa che l'evoluzione degli studi fisiopatologici ci consenta di comprendere meglio i meccanismi biologici e biochimici che possono essere alla base della rapida evolutività dell'aterosclerosi che colpisce una vasta parte della popolazione, sia del mondo occidentale, sia delle economie emergenti. E' sembrato interessante proporre, in questo editoriale, l'opinione dei due grandi esperti che hanno motivato le loro scelte con argomentazioni precise e dettagliate. Come si potrà leggere, siamo ben lontani da una "condivisione" di idee; rimane forte, però, il comune interesse a meglio comprendere come affrontare queste condizioni morbose, per poter offrire (ai nostri pazienti) le migliori possibilità di trattamento.

La sindrome metabolica esiste

Osservazioni e commenti su un articolo di Scott M. Grundy (Diabetes Care 2006;29:1689-1692)

Molte organizzazioni scientifiche hanno proposto di inserire nella pratica clinica il termine di Sindrome Metabolica quale condizione di rischio sia per le malattie aterosclerotiche cardiovascolari, sia per il diabete mellito tipo 2. Questo suggerimento è stato ben accolto dalla comunità medica, ma si sono anche levate critiche sulla reale esistenza della sindrome che, ricordiamo, si basa sull'aggregazione di 5 fattori di rischio i quali, solitamente, si aggregano tra loro determinando un rischio di malattia cardiovascolare particolarmente elevato. Tali fattori sono:
- la dislipidemia aterogena
- l'ipertensione arteriosa
- l'iperglicemia
- lo stato protrombotico
- lo stato pro-infiammatorio.
Approfonditi studi epidemiologici hanno permesso di osservare che l'aggregazione di tali condizioni non è semplicemente "casuale", ma presumibilmente legata proprio a relazioni metaboliche intercorrenti fra loro. Molti nomi sono stati coniati, negli scorsi anni, per definire tale aggregazione (sindrome plurimetabolica, sindrome X, sindrome da insulino-resistenza, pre-diabete, sindrome dismetabolica, ipertensione dislipidemica, adiposità ipertrigliceridemica, quartetto mortale, sindrome metabolica…). Nessuno di tali termini è stato mai universalmente accettato, creando una certa confusione: ma pare evidente alla maggior parte dei clinici che siamo di fronte ad una "sindrome".

Da alcuni anni il termine "Sindrome Metabolica" è ampiamente utilizzato e accettato sia in campo cardiovascolare, sia in campo diabetologico: sottintende una concezione ampia, generale, senza far riferimento ad una particolare patogenesi, per cui è proposto, oggi, come miglior nome per una condizione che intende richiamare l'attenzione dei sanitari. Quindi, non si intende necessariamente sottolineare una unitarietà causale o patogenetica, difficilmente comprovabile: come molte altre sindromi e molte malattie, la "Sindrome Metabolica" riconosce origini multifattoriali e fattori predisponesti. L'obesità e l'insulino-resistenza, però, sono due condizioni strettamente correlate allo sviluppo della sindrome: l'obesità causa insulino-resistenza così come forme ereditarie di insulino-resistenza modificano la risposta del tessuto adiposo all'insulina predisponendo all'obesità.

I meccanismi patogenetici che giustificano queste relazioni sono via via sempre più chiari.
Sappiamo, ad esempio, che negli obesi e nei pazienti con forme congenite di insulino-resistenza vi è un eccesso di acidi grassi non esterificati e adipocitochine nel torrente circolatorio. Ciò determina un alterato accumulo di grasso nel fegato e nei muscoli, contribuendo all'insulino-resistenza, alla dislipidemia, allo stato protrombotico e proinfiammatorio. La sindrome metabolica è peggiorata da altri fattori, quali la sedentarietà, l'età avanzata, fattori genetici, alterazioni metaboliche ed endocrine. In pratica, comprendere che una condizione presenti una eziopatogenesi multifattoriale (come nel caso del diabete mellito tipo 2 o nell'ipertensione arteriosa essenziale) non significa negare l'esistenza della sindrome metabolica. Inoltre, molte osservazioni cliniche hanno evidenziato che la presenza di sindrome metabolica raddoppia il rischio di malattia aterosclerotica cardiovascolare e arriva a quintuplicare il rischio di diabete mellito tipo 2.

Queste evidenze, peraltro, non intendono sostituirsi agli algoritmi del rischio cardiovascolare ("a breve-medio termine" come quello proposto dal Framingham Heart Study), ma semplicemente permettere un riconoscimento clinico di persone che possono sviluppare "a lungo termine" malattia aterosclerotica o diabete mellito. Per questo le persone portatrici di sindrome metabolica necessitano di interventi sullo stile di vita (riduzione ponderale, incremento dell'attività fisica, educazione alimentare) unitamente a valutazioni del loro personale rischio cardiovascolare, magari proprio attraverso lo score di Framigham o altri algoritmi predittivi (in Italia: progetto CUORE, dell'ISS). E' solo sulla base di queste valutazioni personalizzate che si dovranno prendere, caso per caso, decisioni terapeutiche farmacologiche più aggressive, se necessarie. Ricordiamo, però, che l'aggregazione di più fattori di rischio non determina semplicemente la somma dei rischi, ma ottiene un effetto "moltiplicativo" del rischio stesso. In altri termini, l'aumento del rischio cardiovascolare unendo più fattori di rischio non ha andamento "lineare", ma "geometrico": il rischio cardiovascolare globale è maggiore della somma dei singoli fattori di rischio!

Alcune delle condizioni proprie della sindrome metabolica, poi, non sono specificamente sempre rilevate clinicamente, ma comunque sono presenti e determinano l'aumento del rischio (p.es.: l'insulino-resistenza, l'aumento dell'apolipoproteina B, lo stato protrombotico, la disfunzione endoteliale…). Purtroppo sono proprio questi fattori "nascosti" che possono ridurre l'efficacia dei tentativi farmacologici di correzione di alcuni parametri della sindrome (p.es.: la correzione di bassi livelli di HDL-Colesterolo senza una precisa definizione della condizione delle apolipoproteine A e B). Non dimentichiamo, infine, che la sindrome metabolica è una condizione che peggiora con l'evoluzione dell'età, cosicché il rischio CV rilevato in un determinato momento in un paziente può non considerare l'evoluzione del rischio stesso con il progredire dell'età stessa.

Certamente non ha giovato alla "Sindrome Metabolica" il succedersi di diverse proposte di diagnosi, da parte di importanti organizzazioni scientifiche, con parametri e determinanti diversi. Dal punto di vista clinico, la praticità degli schemi diagnostici di ATP III e di IDF consentono una facile applicabilità alla disciplina medica quotidiana, permettendo di applicare ai pazienti quelle linee di intervento comportamentale precedentemente espresse.

Un'ampia discussione si è accesa sull'opportunità di applicare la diagnosi di "Sindrome Metabolica" ai pazienti diabetici tipo 2 qualora portatori degli altri criteri diagnostici (oltre l'implicita iperglicemia). A tale proposito bisogna ricordare che la patogenesi del diabete tipo 2 risente, da un lato dell'insulino-resistenza, dall'altro dell'insulino-deficienza relativa, senza essere comprensiva o indicativa di tutti quei numerosi fattori di rischio cardiovascolare di cui i diabetici sono portatori. Vi è poi la possibilità di interscambio diagnostico (in uno stesso soggetto) tra le categorie c.d. "pre-diabetiche" (IFG, IGT) e il diabete stesso, qualora vengano modificati alcuni parametri antropometrici o sia aumentato l'allenamento fisico, pur se bisogna ricordare che anche soggetti "pre-diabetici" possono essere portatori di ulteriori fattori di rischio tipici della sindrome metabolica. Non è però assimilabile il rischio del "semplice" pre-diabete (inteso come stato di iperglicemia) a quello conferito dalla compartecipazione dei criteri diagnostici della sindrome metabolica, né si dovrà pensare a trattare "solo" l'iperglicemia nell'ottica di ottenere una riduzione del rischio del nostro paziente (scotomizzando l'adiposità, l'ipertensione e altre alterazioni metaboliche).

Sembra quindi utile, al clinico, pensare in modo "metabolicamente più ampio", applicando proprio i criteri diagnostici della sindrome ai pazienti da lui seguiti, per insistere sulla prevenzione, sull'educazione sanitaria e comportamentale al fine di ridurre il rischio cardiovascolare o di evoluzione verso il diabete. Per un paziente, comprendere di essere sottoposto a più fattori di rischio (rispetto al concetto di una sola malattia determinante il rischio stesso) può servire da stimolo per applicare tutti quei cambiamenti necessari ad ottenere un miglioramento fisico, alimentare e metabolico, perdurante nel tempo. Saranno poi le linee guida vigenti a consigliare l'adeguato trattamento farmacologico per ogni specifico fattore non sufficientemente corretto dalla terapia comportamentale senza dimenticare, però, che curare con farmaci uno dei fattori non significa mettere in secondo piano gli altri parametri alterati. Manteniamo alta la speranza che la ricerca scientifica e farmacologica possa proporre soluzioni che agiscano positivamente su più fattori componenti la sindrome metabolica.


La sindrome metabolica non esiste

Osservazioni e commenti su un articolo di Richard Kahn (Diabetes Care 2006;29:1693-1696)

Quasi tutti concordano su alcune caratteristiche della sindrome metabolica: la consapevolezza che alcuni fattori metabolici tendono ad associarsi; che tali determinanti, da soli o in combinazione, comportano un aumento del rischio cardiovascolare e di diabete; che non è ancora disponibile un trattamento specifico della sindrome, ma che la terapia è indirizzata verso ognuno dei fattori presenti nel paziente; che mancano ancora importanti informazioni sulla sindrome, nonostante l'enorme numero di articoli e lavori scientifici pubblicati negli ultimi anni sulle riviste più autorevoli.

Proprio la carenza delle basi fisiopatologiche della "sindrome" suscita la domanda circa l'opportunità di apporre ad un paziente una diagnosi che dovrebbe determinare un'azione medica specifica; proprio la mancanza di una solida evidenza pone problemi sull'utilità clinica di una tale classificazione diagnostica. Infatti, non sussistono basi biologiche per l'algoritmo diagnostico della "sindrome metabolica": al presentarsi di ogni nuova proposta classificativa (da parte di OMS, ATP III, IDF, ecc…) non sono mai state rese note le specifiche evidenze biologiche che giustificavano il cambiamento e/o di come le nuove/rivisitate definizioni diagnostiche migliorassero la sensibilità/specificità/potenzialità predittiva della diagnosi stessa. Non vi sono spiegazioni della scelta dei valori soglia, né del perché (per porre diagnosi di "sindrome") ci si debba basare su tre criteri (…perché non 1, 2, o perché non 4 o tutti e 5?…).

Se l'insulino-resistenza è al centro del problema, perché non includere tra i criteri diagnostici l'età (essendo l'età il più potente predittore di insulino-resistenza)? Se la "sindrome" comprende stati protrombotici e pro-infiammatori, perché non inserire tali criteri nella definizione?
Perché il limite della pressione arteriosa considerato criterio diagnostico è cambiato da 130 e 85 a 130 o 85mmHg? E perché allora non 135/80 o 125/75?
Tanto per fare paragoni, ricordiamo che il cambiamento della soglia diagnostica per il diabete mellito (glicemia basale da >140 a >125mg/dL) fu oggetto di numerosissime osservazioni e rilevazioni basate su documentati studi presenti in letteratura!

Detto questo, osserviamo come la "sindrome" è comunque un predittore debole di diabete futuro o di malattia cardiovascolare. Certo, non vi è dubbio che la "sindrome" sia associata a un maggior rischio cardiovascolare o di diabete: nella sua definizione sono presenti 2 dei maggiori fattori di rischio di diabete (obesità e intolleranza ai glucidi) e ben 5 fattori di rischio per malattia cardiovascolare. Nulla di nuovo, quindi, sull'enfasi da dare all'importanza della prevenzione che sarebbe comunque preminente (in tali pazienti) anche senza il "cartellino" della diagnosi di "sindrome metabolica".

Che poi la "sindrome" debba intendersi come predittore a lungo termine (rispetto alle potenzialità predittive di rischio a breve-medio termine p.es. dell'algoritmo di Framigham) è cosa tutta da dimostrare: nessuna pubblicazione ha comprovato tale miglior capacità predittiva a lungo termine da parte della "sindrome", poiché la maggior parte degli studi ha seguito coorti di pazienti per meno di 10 anni! Non solo, ma anche in studi con follow-up di durata superiore, lo score di Framingham era migliore della sindrome metabolica nel predire patologie cardiovascolari.

La "semplice" glicemia a digiuno è un predittore di diabete di gran lunga migliore della complessa definizione della "sindrome" che richiede (oltre alla rilevazione glicemica) anche la determinazione (costosa) del profilo lipidico.
Non vi sono prove che la "sindrome" sia migliore predittore di eventi cardiovascolari rispetto, p.es., al colesterolo LDL che, oltretutto, è già entrato nel bagaglio di conoscenze dei medici e della popolazione.

Da notare, poi, che nella definizione della sindrome non vi sono cut-off "superiori", cosicché molti soggetti possono rientrare nella diagnosi pur avendo un franco diabete, una importante ipertensione arteriosa, severe anomalie lipidiche. Ovviamente tali pazienti hanno un elevato rischio cardiovascolare ed è tutto da dimostrare che tale rischio sia maggiore perché rientrano nei criteri della "sindrome" o perché hanno una patologia conclamata non controllata. Sarebbe forse meglio conoscere il rischio cardiovascolare per quei soggetti che hanno valori borderline, non ancora francamente patologici, ma non vi sono studi definitivi su tale argomento.

L'intero non può essere più grande della somma delle sue parti: bisogna confutare il concetto che il rischio legato alla "sindrome" sia maggiore del rischio causato dai suoi determinanti. Molti studi clinici dimostrano che il rischio cardiovascolare associato alla "sindrome" non è maggiore di quanto atteso dalla compresenza dei suoi componenti diagnostici: aspettiamo le evidenze che ci convincano di come una persona con la "sindrome" debba essere trattata diversamente da un paziente che viene curato per ognuno dei componenti diagnostici alterati.

In pratica, non vi è alcuna evidenza scientifica che la diagnosi di "sindrome" abbia utilità clinica.
Non si capisce perché dire ad un paziente che è portatore della "sindrome" debba motivarlo di più ad affrontare tutti quei cambiamenti comportamentali (fisici ed alimentari), rispetto a comunicargli una per una tutte le alterazioni riscontrate nell'ambito di una valutazione medica complessiva. Per un soggetto sovrappeso o obeso, il raggiungimento ed il mantenimento della riduzione ponderale è difficile, richiede fatica e sacrificio: è semplicistico pensare che dargli la notizia che è portatore della "sindrome metabolica" possa in qualche modo influenzare il suo comportamento. Ci vogliono prove, bisogna documentare con risultati clinici le affermazioni dei propositori della "sindrome". Nonostante tutto ciò, abbiamo veramente bisogno di sentirci ancora dire che una regolare attività fisica e una buona educazione alimentare possono migliorare il nostro stato di salute? Non è già "implicito" nel concetto stesso di salute e di benessere fisico?

Il concetto che la "sindrome" permetta al medico di pensare ad un approccio multifattoriale per la prevenzione cardiovascolare (rispetto al pensiero "uni-fattoriale") è confondente: va bene riflettere sui determinanti della "sindrome", ma dovremmo forse prestare minore attenzione all'età, al fumo di sigaretta, al Colesterolo LDL, alla dispnea, al dolore toracico dei nostri pazienti (criteri non presenti nella sindrome)? I medici sanno come comportarsi indipendentemente dal fatto che la "sindrome" lo suggerisca loro. Etichettare un paziente con la dicitura "sindrome metabolica" può essere confondente sia per il paziente, sia per il medico.

La diagnosi di "sindrome" si basa su dicotomie di variabili continue, senza porre (come dicevamo) limiti superiori: una persona con leggera adiposità addominale, con una glicemia di 105mg% e una PAO superiore a 130mmHg viene classificato portatore della "sindrome" così come un soggetto con una obesità patologica, un diabete scompensato e una pressione non controllata superiore a 165mmHg Sistolica. Vi sembra che questi individui abbiano lo stesso rischio di infarto o di ictus? Riflettete: se la prima paziente è una donna di 40 anni con LDL-Colesterolo di 75mg/dl, senza familiarità per malattie cardiovascolari; pensate abbia un rischio sovrapponibile al secondo paziente? Cosa ci dice, in più, la "sindrome" sul suo rischio di diabete, che non la sua iperglicemia basale?

Ragioniamo al contrario: se avessimo un paziente è di sesso maschile, di 55 anni, francamente obeso, affetto da ipertensione, ma senza altri fattori di rischio cardiovascolari: la mancata possibilità di porre diagnosi di "sindrome metabolica" non deve indurci comunque a intervenire modificando il suo stile di vita, la sua alimentazione? E se tale persona fumasse e avesse un Colesterolo LDL pari a 160mg%? L'assente diagnosi di "sindrome" sarebbe per noi incoraggiante?

Questi esempi (non così lontani dalla complessità della realtà clinica quotidiana) ci devono far capire che se la "sindrome" dovrebbe far porre attenzione su molteplici fattori di rischio, parimenti non deve farci dimenticare tutti gli altri fattori, ugualmente importanti. Così come etichettare una persona con la "sindrome" potrebbe generare eccessive preoccupazioni mentre coloro che non rientrano nella definizione (ma sono, in realtà, ad altissimo rischio) potrebbero sentirsi sollevati dal non avere la "sindrome". Senza citare, poi, che (con o senza "sindrome") il fumo rimane il peggior nemico per la nostra salute!

In conclusione: un buon medico, che segua le linee guida e che valuti complessivamente il suo paziente, non ha bisogno di ulteriori etichette o "sindromi" definite sulla base di discutibili cut-off, su molte incertezze e su inconsistenze scientifiche: più che uno strumento per guidare la cura dei medici, la "sindrome" sembra un'avventura rischiosa che può portare a insicurezze, preoccupazioni inopportune, tranquillità ingiustificate, cure costose improprie. Nessuno vuole sottovalutare i vari fattori di rischio, anzi bisogna insistere che vengano applicate precise linee guida e terapie efficaci comprovate da solide basi scientifiche.

Antonio C. Bossi - U.O. Malattie Metaboliche e Diabetologia, A.O. "Ospedale Treviglio-Caravaggio"