LE LINEE GUIDA EUROPEE PER LA PREVENZIONE DELLE MALATTIE CARDIOVASCOLARI NELLA PRATICA CLINICA

European Guidelines on Cardiovascular Disease Prevention in Clinical Practice - EHJ Executive Summary
Third Joint Task Force of European and other Societies on Cardiovascular Disease Prevention in Clinical Practice - European Heart Journal 2003; 24:1601-1610
Traduzione in italiano

Commento:

E' stata pubblicata la terza versione delle Linee guida europee per la prevenzione delle malattie cardiovascolari nella pratica clinica. Le novità sono molte e la più importante è che le nuove carte europee del rischio si basano su dati derivati dallo studio SCORE e non più su quelli dello studio di Framingham. Il progetto SCORE (Systematic COronary Risk Evaluation) condensa i dati emersi da 12 studi di coorte in 12 stati europei ed era stato lanciato allo scopo di raccogliere elementi per una stima del rischio cardiovascolare in popolazioni europee. Il vantaggio di utilizzare per la stima del rischio i dati dello SCORE, piuttosto che quelli del Framingham, è duplice. Il primo è naturalmente quello che lo SCORE ha indagato la realtà europea e non quella statunitense, da molti giudicata non estrapolabile al nostro e ad altri Paesi della area sud dell'Europa, il secondo è che lo SCORE predice il rischio cardiovascolare totale (coronarico, cerebrale e periferico) e non solo quello coronarico, come il Framingham (che peraltro fornisce dati per il calcolo della probabilità di eventi anche nei distretti cerebrale e periferico, ma che non erano utilizzati nelle carte del rischio precedenti). Lo svantaggio è che la stima del rischio secondo lo SCORE è circoscritta alla probabilità di morte (con l'algoritmo di Framingham la previsione si estendeva agli eventi fatali e non fatali).
La valutazione della sola mortalità cardiovascolare appare limitativa in un progetto che ha l'ambizione della prevenzione delle malattie cardiovascolari. Per fortuna, solo una frazione degli eventi clinici aterosclerotici conduce subito a morte, la maggior parte degli eventi è seguita da stabilizzazione con esiti più o meno gravi, ma tali comunque da creare alti costi economici ed importanti disabilità. E non è certamente assiomatico che prevenire la morte equivalga a prevenire anche la malattia. Anzi, negli ultimi anni, mortalità e morbilità cardiovascolare hanno avuto andamenti divergenti con una riduzione della prima a fronte di un aumento di eventi clinici non fatali. D'altra parte, gli stessi Autori dello studio SCORE spiegano che non si poteva fare diversamente, dato che la maggior parte degli studi nazionali di coorte non aveva raccolto dati sugli eventi cardiovascolari non mortali e, del resto, anche la loro definizione sarebbe stata piuttosto problematica per la mancanza della necessaria uniformità diagnostica.
Il problema della sottostima del rischio è attenuato dall'abbassamento della soglia di intervento terapeutico intensificato. Le nuove raccomandazioni stabiliscono infatti che si debba intervenire quando il rischio di morte nei 10 anni è uguale o superiore al 5% e non più quando il rischio di eventi cardiaci fatali e non fatali supera il 20%. In altri termini, per mantenere una coerenza con le linee guida precedenti, si presume che il rapporto tra la globalità degli eventi cardiovascolari mortali e gli eventi coronarici sia di uno a quattro, il che probabilmente sottostima il rischio di eventi clinici non fatali.
Le nuove carte del rischio si basano sulla valutazione dei soliti classici fattori quali il sesso, l'età, il fumo, la pressione arteriosa sistolica ed il colesterolo totale o il rapporto colesterolo totale/colesterolo HDL e sono applicabili a soggetti asintomatici. I pazienti con malattia coronarica, arteriosa periferica e cerebrovascolare sono già da considerare ad alto rischio e perciò da trattare con adeguata terapia farmacologica se la pressione arteriosa rimane sopra i 140/90 mm Hg o se il colesterolo totale rimane più alto di 190 mg/dL (colesterolo LDL =115 mg/dL), nonostante l'assunzione di uno stile di vita corretto. In accordo con l'Adult Treatment Panel III del National Cholesterol Education Program, anche i diabetici di tipo 2 e quelli di tipo 1 con microalbuminuria sono da considerare come appartenenti alla categoria ad alto rischio, anche se non presentano segni clinici di malattia aterosclerotica. Ugualmente alla categoria ad alto rischio sono da annoverare coloro che presentano livelli marcatamente elevati di un singolo fattore di rischio, per esempio una colesterolemia superiore a 320 mg/dL, un LDL colesterolo superiore a 240 mg/dL od una pressione arteriosa superiore a 180/110 mm Hg. Per tutti gli altri, l'impostazione della terapia farmacologica ipolipidemizzante ed ipotensiva è subordinata al calcolo del rischio di morte cardiovascolare che deve essere superiore o uguale al 5% nei 10 anni successivi. Se è inferiore, si agisce solo sullo stile di vita e si propongono controlli annuali del livello di rischio, a meno che il paziente, pur asintomatico, abbia un'evidenza strumentale di malattia cardiovascolare subclinica (ad esempio placche o grave ispessimento carotideo), una storia familiare positiva per malattia cardiovascolare precoce, livelli di colesterolo HDL bassi, una ridotta tolleranza glucidica o aumentati livelli di proteina C reattiva, fibrinogeno, omocisteina, apolipoproteina B o lipoproteina (a). Per queste eccezioni, non vengono comunque date indicazioni chiare, ma ci si limita a notare che il rischio cardiovascolare può essere più elevato di quanto indicato dalla carta.
Le linee guida forniscono due tavole per la valutazione del rischio di morte cardiovascolare, la prima destinata alle regioni dell'Europa meridionale (in cui vengono inclusi, oltre l'Italia, il Belgio, la Francia e la Svizzera) e l'altra rivolta alle regioni del nord Europa dove la probabilità di morte cardiovascolare è più alta. I motivi della diversità del rischio cardiovascolare nelle varie popolazioni non sono chiari e comunque non sono da attribuire ad un diverso peso predittivo dei classici fattori di rischio, ma ad altre cause ancora non ben definite.
Nei paesi a basso rischio, le carte dicono che la probabilità di morire per una malattia cardiovascolare è veramente molto bassa, quasi nulla per le donne non fumatrici. Ma in Italia, le malattie cardiovascolari rappresentano la principale causa di morte proprio nelle donne (49% contro 39% per gli uomini, secondo il rapporto ISTISAN del 2001), che più spesso non fumano. La maggior parte degli eventi cardiovascolari mortali si verifica in soggetti di età avanzata (62% negli uomini e 83% nelle donne sopra i 75 anni) e le classi di età maggiore di 65 anni non sono contemplate nelle tavole del rischio.
Scorrendo le tavole, che graficamente sono molto simili a quelle pubblicate con le linee guida precedenti, emerge l'enfasi che viene posta proprio sull'età come singolo fattore di rischio. L'intera stima del rischio è governata in gran parte dall'età. E' un dato ripetitivo, già presente nelle prime stesure delle linee guida e che lascia, ora come prima, alquanto perplessi. E' indubbio che l'età sia un importante fattore di rischio per la morte, ma le carte del rischio non vengono proposte per la definizione teorica della probabilità di morire entro un certo periodo di tempo, bensì come base per un comportamento terapeutico. Non sembra appropriato far dipendere in gran parte dall'età anagrafica la decisione di un intervento di prevenzione di una malattia che inizia in età giovanile e si sviluppa poi nel corso di decenni. In età avanzata, la malattia è già progredita, anche se non ha dato segni clinici di sé. La regressione delle lesioni aterosclerotiche è ancora possibile, ma non sembra questo il mezzo più efficace da adottare per la prevenzione.
E' ben vero, come si fa notare, che i trentenni hanno un rischio sostanzialmente nullo di morire nei successivi 10 anni, ma rimane il dubbio se non valga, anche per l'aterosclerosi, come per tante altre malattie, il principio che l'opera di prevenzione debba essere precoce. Anche questa volta viene comunque suggerito un escamotage e cioè la proiezione del rischio all'età di 60 anni per chi ne ha meno. E' un suggerimento alquanto sibillino, difficile da interpretare e fonte di equivoci. E poi, perché a 60 anni? Nelle regioni a basso rischio, le donne non fumatrici non dovrebbero essere mai trattate con una terapia ipocolesterolemizzante se non dopo i 65 anni e, anche dopo questa età, solo nel caso siano ipertese. Le altre, secondo lo SCORE, sono a basso rischio e non devono essere pertanto oggetto di particolari attenzioni. E quali sono le indicazioni per le età più avanzate quando maggiore è la mortalità cardiovascolare? Non ci sono indicazioni perché non ci sono dati epidemiologici. Ma se mancano i dati epidemiologici, ci sono altre fonti di informazione, per esempio gli studi di intervento che hanno dimostrato l'efficacia in termini preventivi della terapia ipocolesterolemizzante ed ipotensiva anche in queste fasce d'età.
Sorge spontanea una domanda. E' corretto per l'impostazione di una terapia tenere in considerazione solo il dato desunto dall'osservazione epidemiologica? In generale, la stima del rischio non può che essere imprecisa quando applicata al singolo. Nel caso specifico, lo è anche perchè deriva da un pannello ristretto di variabili che non include alcuni fattori di rischio ai quali viene oggi attribuito un forte peso predittivo e che, se introdotti nell'algoritmo, potrebbero cambiare le previsioni. Se la previsione si basa su un sistema imperfetto, è discutibile l'esasperazione del calcolo con la suddivisione della popolazione in tante (infinite, in caso si utilizzi un algoritmo) categorie a rischio diverso. E' discutibile fondare la scelta decisionale solo sul superamento o meno di un livello di rischio teorico del 5% a 10 anni che è del tutto arbitrario e che risponde più a considerazioni di ordine economico che ad evidenze scientifiche. E' discutibile anche non considerare fonti di informazione diverse da quelle dell'indagine epidemiologica. I risultati degli ormai numerosi studi di intervento hanno dimostrato l'efficacia del trattamento farmacologico anche in soggetti con livelli di rischio più bassi. I limiti per l'inizio di una terapia farmacologica sono rimasti a 190 mg/dL per il colesterolo totale ed a 115 mg/dL per il colesterolo LDL. Ma gli studi di intervento hanno dimostrato l'efficacia delle statine anche in soggetti con valori inferiori. I principi della medicina basata sull'evidenza avrebbero meritato una maggiore considerazione nella stesura delle raccomandazioni.
Un ultimo appunto. Le linee guida servono al medico nella sua quotidianità e devono coniugare la necessaria obiettività scientifica con la loro applicabilità, senza dimenticare la prudenza che deve essere alla base di qualunque atto medico. Nel caso specifico, prudenza significa estendere la terapia con farmaci che hanno mostrato buona tollerabilità e sicura efficacia anche in soggetti con un profilo di rischio globale più basso di quello suggerito. Il rapporto rischio/beneficio sarebbe sempre favorevole. Non si può neanche dimenticare un altro aspetto che deve essere sempre vivo nel medico. E' quello dell'etica professionale e non è etico negare ad un paziente una terapia da cui può trarre beneficio.
Se il problema attuale è quello di una scarsa attenzione per la correzione dei fattori di rischio per l'aterosclerosi, linee guida che necessitino di strumenti cartacei o informatici e che siano gravate da troppe eccezioni e distinguo non facilitano certo la loro applicazione. Non è troppo chiedere alle linee guida indicazioni più semplici e memorizzabili che integrino le conoscenze derivate da varie fonti e che non costringano a ricorrere per la decisione terapeutica ad una funzione matematica cui viene attribuita la capacità di prevedere il destino di una persona.

Domenico Sommariva - Divisione di Medicina Interna 1, Ospedale G. Salvini, Garbagnate Milanese
Adriana Branchi - Dipartimento di Medicina Interna, Università degli Studi di Milano, Ospedale Maggiore IRCCS, Milano